5 giugno 2008

PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI

Domenica sono stato in una regione vicina alle sorgenti del Rio Urù. C'è una strada coperta da erba alta, che bisogna indovinarla per non finire in qualche buco. Poi si lascia la macchina, si attraversa la fitta boscaglia a piedi, ed ecco il fiume. L'Urù scende verso nord per oltre duemila Km di lunghezza, ma quassù è ancora un fiumiciattolo di montagna con le sue simpatiche spiaggette di sabbia grossa. Bello! In tempi lontani lo frequentavo spesso. Andavo a pescare. Oggi la campagna, intorno, è semi-abbandonata. Nei poderi piccoli sono rimasti solo pochi appassionati, generalmente in età avanzata perchè i giovani vanno in città. Un anziano contadino ci ha fatto da guida. L'uomo soffre da due anni di una forma di paralisi alle gambe. Abbiamo dovuto portarlo in braccio fin sulla macchina, e ci ha chiesto di mettere una coperta ripiegata (sua) sul sedile, perchè quando l'urina gli scappa non riesce a trattenerla. Un poveretto molto simpatico. Magro secco come un uscio, preferisce comunque rimanere dov'è: forse perchè quando lo mettono a sedere davanti a casa ne ha di cose da guardare. Per uno che sta fermo, ogni uccello che si posa sull'arbusto più vicino e ogni fiore che spunta è un avvenimento. La diversità è senza limiti.


La riunione della FAO, che si svolge in questi giorni a Roma, ha attaccato il problema giusto: l'abbandono dei campi e la pressione dei "grossi" contro l'agricoltura familiare. La scelta politica di misurare tutto col metro dei soldi ha portato a questo. La campagna è solo uno spazio per le grandi imprese esportatrici che producono in funzione del mercato. Siccome in questo momento quello che "tira" di più è il combustibile, si coltiva per produrre biocombustibili e si toglie spazio alla produzione di alimenti. I contadini sono un fastidio. Il meglio che possono fare è affittare il podere alle compagnie di alcool che vi piantano la canna da zucchero. La canna riduce la terra, in pochi anni, allo stato di polvere sottile: inutilizzabile per l'agricoltura. L'uso di diserbanti inquina tutti i corsi d'acqua. La polverizzazione di insetticidi e fungicidi avvelena le campagne circostanti e uccide insetti buoni e cattivi. Il rimedio? Correggere il modello di sviluppo. Per fare questo la FAO non ha autorità sufficiente. Mi pare che non ci sia molto da sperare dalla FAO, anche se è sempre meglio un vertice ONU che guarda in faccia la realtà, piuttosto che niente. La spinta efficace per cambiare potrà venire solo dal basso, ma per questo la gente deve organizzarsi. Solo Dio sa se questo accadrà, e quando: per il momento la società passa le ore libere davanti al televisore e si lascia trasportare dalla corrente di questo "pseudo-sviluppo" imposto.


In città, nel frattempo, le persone si pestano i piedi a vicenda. Ad Itaberaì, a fine settimana, alcuni hanno costruito barricate. Si fa per dire. Circa 200 famiglie hanno occupato un'area del comune per ottenere lo spazio su cui fare la casa. Io sono andato a vedere e ascoltare. L'occupazione è illegittima e devono senz'altro andare via senza fare resistenza. Non hanno un briciolo di ragione. Quell'area è, infatti, parte di una lottizzazione privata che il Comune ha espropriato per costruire case popolari. Ha già una destinazione sociale. Non è escluso che alcuni degli "invasori" stia tentando di sfruttare il periodo elettorale per ricattare il sindaco, facendosi regalare i lotti che sono destinati a famiglie già registrate come sicuramente bisognose. In mezzo ai sediziosi, però, ci sono molte famiglie che davvero necessitano urgentemente di un luogo ove costruire una casetta. Nell'insieme, questa non è una invasione, ma un grido come quello di Bartimeo: aiutateci, non sappiamo come fare! Io l'ho fatto presente alle autorità che erano sul posto a cercare di scacciarli in fretta e furia. "Sono cittadini che lavorano, non cercano lo scontro: non mandateli via arrabbiati a mani vuote, senza nemmeno una speranza". Mi sembra di aver trovato voglia di conciliazione da ambedue le parti. Speriamo bene. Il segretario comunale per l'edilizia ha promesso di verificare e selezionare le famiglie che hanno bisogno più urgente e registrarle per una casa popolare quanto prima. Non è un atto di carità: questa gente, come dice la CEI, è anche una risorsa.


Ho commesso una grave dimenticanza nella conversazione con il gruppo di "insorti" e le autorità presenti: un invito al Padre Nostro. Credo che lo avrebbero pregato volentieri, e si sarebbero dati la mano con gioia, evangelici e cattolici senza distinzione. E' una preghiera che farebbe bene anche agli italiani che attaccano accampamenti di nomadi o escono in strada di notte per picchiare il prossimo: ma temo che lì, nella nicchia del cattolicesimo, non accetterebbero di recitarla. Se ci fosse meno clericalismo e più fede!
La fede aperta dei latino-americani è di grande aiuto. "Dacci oggi il nostro pane quotidiano": e anche lo spazio per costruire una casetta in città, visto che in campagna non ci lasciano vivere. Se alla riunione della FAO le autorità dei vari paesi pregassero insieme così, ci sarebbe da sperare. Su Adista ho trovato una bella riflessione sul Padre Nostro, e ve la pubblico almeno in parte. E' un buon antidoto anche contro tanta spiritualità che è rivolta solo verso il cielo o verso il proprio mondo interiore, come se il Padre non si occupasse di pane e case. E' intitolata IL PADRE NOSTRO IN TEMPI DI RIBELLIONE, scritta da Gerardo Oberman, un pastore protestante argentino.


"Molti secoli fa, in una società violentata da ingiustizie economiche e sociali, in un contesto di enormi disuguaglianze, in un tempo di egoismi e di mancanza di solidarietà, in un’epoca di governanti insensibili, di autorità religiose indifferenti e di grandi signori che se ne lavavano le mani, un umile maestro di una zona povera del Paese insegnò ai suoi discepoli e discepole una breve preghiera. Iniziava con "Padre nostro..." ed è passata così alla storia.
In qualche modo quella preghiera trascende il piano meramente spirituale proponendo una nuova maniera di intendere le relazioni umane e una nuova modalità di costruire relazioni economiche.


La preghiera invita a superare una concezione individualista di spiritualità per introdurre chi la recita in una dimensione di comunità. Il Dio invocato non è il "mio" Dio, ma il "nostro" Dio. Al Dio che si vuole raggiungere con la preghiera si riconosce il diritto di fare la "sua" volontà e non semplicemente come un esercizio di astrazione. Non si chiede che questa volontà trasformi i cieli, ma che sia capace di rivoluzionare la terra. Se questa volontà riesce a farsi strada nella vita di coloro che pregano, il Regno, che è di Dio ma che è condiviso, "viene" e non esclusivamente per me, ma per noi.



Tuttavia, l’elemento più caratteristico di questa preghiera è quello che insegna a chiedere il pane. "Dacci oggi il nostro pane quotidiano". Questo pane è il simbolo dell’alimento umano. Ma è anche il simbolo dell’esistenza umana, è il simbolo della vita stessa. La vita è inevitabilmente legata al pane, all’alimento, alla materia necessaria per il sostentamento del corpo. Perché questo pane giunga fresco su ogni tavola bisogna riconoscere che è il frutto di tutto un processo. Per prima cosa è necessario accettare la benedizione della terra come dono di Dio, poi prepararla con paziente fatica, seminare, fare il raccolto, portarlo al mulino, ritirare la farina, portarla nei luoghi di approvvigionamento, impastare il pane, infornarlo e finalmente goderne a tavola. Per questo, quando chiediamo il pane quotidiano, stiamo chiedendo anche che si preservi il lavoro quotidiano, che si preservi questa catena di produzione, di commercializzazione, di distribuzione che permette alle persone di vivere con dignità. Dignità che è per tutti e per tutte. Per questo preghiamo: "nostro" pane.



La vecchia preghiera del maestro di Galilea che continuiamo a ripetere nelle nostre chiese e nelle nostre case forse può arricchire il dibattito sulla situazione che in queste settimane tiene occupata e preoccupata la società argentina. La preghiera invita alla giusta ribellione quando il pane manca sulla tavola, quando c’è molto pane "mio" e poco pane "nostro", quando non c’è equità nell’approvvigionamento dei beni che la terra produce. Quando la dicono i poveri, la preghiera è speranza di giustizia. E quando la pronunciano coloro che hanno il privilegio di una migliore situazione economica, la preghiera è un impegno etico a fare il possibile perché in nessuna vita manchi quello rende degna la vita.



Spesso in questi secoli, da quando è stata detta per la prima volta, molte persone hanno pregato senza arrivare a comprendere la profondità delle parole di Gesù. Molte persone non hanno capito che, nella proposta del Regno, la ricerca di una migliore distribuzione del pane è una condizione essenziale. La volontà di Dio resta irrealizzata se il pane della dignità per un qualsiasi motivo non arriva a qualche tavola. Il Regno di Dio non ci giungerà mai se continueranno ad esistere persone, settori, governi decisi a fare esclusivamente la propria volontà, costruendosi propri regni di privilegi.



Quello che molta stampa in Argentina ha chiamato "ribellione" delle campagne ha messo a nudo una volta di più le tremende meschinità dell’essere umano. Il "mio" governo invece del "nostro" Paese, il "mio" reddito invece del "nostro" progresso, la "mia" immagine di amministratore invece della "nostra" credibilità come Stato, la "mia" posizione intransigente invece della "nostra" capacità di dialogo...



Il danno che le decisioni unilaterali, i discorsi incendiari da un lato e dall’altro, i messaggi pieni di mezze verità, i blocchi stradali, gli incitamenti alla violenza e le minacce incrociate hanno provocato al fragile tessuto sociale argentino è tremendo. Si vede, si palpa, si sente. E ci fa male, molto male. "Liberaci dal male".



Forse ci farà bene ricordare questa preghiera e recitarla pensando bene a ciò che diciamo. Perché il Padre nostro è una preghiera che ci dà l’opportunità di rivedere posizioni, riadeguare discorsi, ripensare il nostro contributo al progetto di Regno per il quale Gesù fu assassinato e che contempla come elemento fondamentale della volontà di Dio il fatto che il pane sia un bene ‘nostro’. Il Padre nostro ci permette di considerarci non come isole ma come parti di un tutto, ci dà l’opportunità di superare la barriera dell’individualismo verso il terreno dell’incontro, della fratellanza, della solidarietà, di una costruzione comune. Ci permette, anche, di riconoscere errori e fallimenti, di chiederci perdono e di guardarci negli occhi per affermare che il ‘potere’ trasformatore esiste e che la ‘gloria’ per cui siamo disposti a morire si rivela nella nostra capacità di renderci parte di un ‘regno’ che dura per sempre, in cui si condivide un pane che basta per tutti e in cui a nessuno viene sottratta la possibilità di vivere in pienezza".

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