26 febbraio 2008
UNA CHIESA CHE HA FUTURO
Vi faccio vedere il mio vescovo di Goiàs, Eugenio Rixen (un belga), seduto tra noi durante una riunione diocesana di coordinamento. E' quello con una freccina nera sottile sulla camicia bianca. In molte parti del mondo i vescovi stanno in mezzo alla gente senza darsi arie di superiorità, e questo non diminuisce il rispetto, nè il loro ministero di pastori: anzi, sono ancora più amati, creduti e rispettati. In genere, le decisioni importanti sono prese dopo un accurato studio e discussione con tutti i preti, suore, laici e laiche che hanno incarichi nell'evangelizzazione e nel culto. In questo modo in Brasile, in Diocesi come la nostra dove fino a venti anni fa quasi non c'erano preti nativi e dovevano venire tutti dall'estero, oggi le vocazioni si sono moltiplicate. E soprattutto, ci sono schiere di laici e laiche che danno testimonianza, celebrano la Parola ed evangelizzano. Questo è uno dei frutti del Concilio Vaticano II, e delle assemblee di Medellin, Puebla e Santo Domingo. L'ultima assemblea dei Vescovi Latino-Americani, avvenuta lo scorso anno ad Aparecida (Brasile), lo ha riconosciuto ed ha ribadito la fedeltà al Vangelo, al Concilio, alla scelta dei poveri e all'importanza della partecipazione dei laici. Anzichè pensare a tornare indietro, celebrando in latino e col prete voltato di spalle, o dando la comunione solo in bocca e col "fedele" inginocchiato, riflettiamo sui problemi importanti. Il Concilio ha dato spazio ai cristiani di passare da eterni bambini ad adulti nella fede, da passivi ad attivi, da esecutori di obblighi a volonterosi cooperatori dell'evangelizzazione.
Il Concilio Vaticano II ha riportato la Chiesa a una maggiore fedeltà a Gesù Cristo, al Vangelo e alle sue origini di comunità di discepoli di Gesù. Ciò di cui abbiamo bisogno non è di tornare indietro, ma andare avanti nelle riforme con tanta speranza e fiducia nella forza dello Spirito Santo. Ma non tocca a me dirlo. Contrariando le mie abitudini di pubblicare delle pagine piccole, cedo lo spazio ad un brano di un lunghissimo articolo pubblicato sul numero 18 di Adista-documenti, che è tratto da un libro scritto di recente dal vescovo ausiliare di Vienna. Invito i miei pochi lettori a leggerlo attentamente. Egli ha proposte concrete e trasmette molta speranza.
UNA CHIESA CHE HA FUTURO
di Helmut Krätzl - vescovo ausiliare di Vienna
Cap. 2 - Dio chiama sempre meno preti?
Una delle maggiori preoccupazioni dei vescovi di oggi è la carenza di preti. Attualmente molte comunità non hanno un ministro disponibile. L’Eucaristia domenicale non può più essere celebrata regolarmente ovunque. Il servizio presbiterale si limita all’amministrazione dei sacramenti, trascurando altre importanti attività pastorali. Il crescente sovraccarico di lavoro per i preti limita lo spazio della spiritualità e scoraggia i giovani a seguire la vocazione sacerdotale.
Le conseguenze della carenza di preti
Il numero di ordinazioni presbiterali in Austria dai primi anni ’60 è in costante diminuzione. Nel 1962 sono stati ordinati 172 preti tra diocesani e religiosi, nel 2003 sono stati 37, nel 2005 solo 32. L’emergenza aumenta, mentre l’età media dei preti non fa che crescere. L’incremento numerico dei decessi nel clero è inesorabile e non può in alcun modo essere compensato dal numero delle nuove ordinazioni. Solamente nell’arcidiocesi di Vienna vi sono 250 parrocchie senza prete. Il fenomeno è in costante ascesa, tanto che uno stesso prete spesso deve seguire più realtà parrocchiali. La situazione non cambia negli altri Paesi europei. A livello mondiale, la carenza di preti è ancora più grave (…). Il card. Oscar Rodríguez Maradiaga dell’Honduras, salesiano, tra i papabili all’ultimo Conclave, ha affermato, durante una conferenza all’ambasciata argentina presso la Santa Sede nel gennaio 2007, che nella sua diocesi un parroco può a volte seguire più di 100.000 fedeli. Le attività delle sètte in luoghi del genere aumentano a dismisura, tanto più che queste si prendono cura dei malati. “Un parroco che segue 100.000 fedeli non potrebbe mai essere presente al capezzale di un malato”. Ma ciò che pesa ancor di più è che, in alcune comunità africane ed asiatiche, i fedeli hanno la possibilità di prendere parte all’Eucaristia solamente due o tre volte l’anno.
La Chiesa cattolica si è a lungo vantata, a ragione, di essere la Chiesa dei sacramenti, in contrapposizione alla Chiesa evangelica che è quella “della Parola”. Oggi nelle nostre parrocchie, a causa della mancanza di preti, la domenica sempre più spesso viene svolto il solo Servizio della Parola, mentre, nelle parrocchie luterane di Vienna, ogni domenica si svolge la Commemorazione della Cena, o “Eucaristia”, come anche loro oggi la definiscono.
Questo stato di necessità ci obbliga a cercare nuove soluzioni. Quali possono essere?
La soluzione “pragmatica”
Dato che la situazione numerica non sembra poter variare nel breve periodo e che ad oggi non ci si possono attendere contributi significativi da parte della Chiesa istituzionale, ogni diocesi cerca la sua soluzione di ripiego. Le diocesi adattano le proprie strutture al numero di preti disponibili.
In Germania, Francia e Austria si progettano degli ampi spazi parrocchiali, nei quali si pensa di unire più parrocchie. Uno o più preti, coadiuvati da un team di laici adeguatamente preparati, guidano la pastorale dell’area da una parrocchia centrale. Si può argomentare che tutto ciò determini anche l’inesorabile decremento del numero di fedeli cattolici. D’altro canto, i mezzi di trasporto in Europa consentono di percorrere anche grandi distanze per andare a Messa.
I teologi pastorali possono obiettare che così verrebbe tolta l’indipendenza alle comunità più piccole che fino ad oggi ne avevano goduto. E che questo minerebbe sia il gusto per la vita delle persone che la vitalità delle celebrazioni liturgiche in loco. La gente oggi cerca sempre più una “abitazione” nella comunità in cui vive, poiché è sempre più isolata e priva di punti di riferimento.
In molte comunità la chiesa è l’ultima forma di socializzazione, in quanto unisce le persone nella gioia e nelle sofferenze. La liturgia rinnovata del post-Concilio spinge verso una partecipazione attiva nella celebrazione comunitaria. Ciò però presuppone una comunità in cui ci si conosca e luoghi di condivisione facilmente identificabili (…).
Nell’arcidiocesi di Vienna si è dato vita ad una iniziativa di parroci che ha esposto questo problema con chiarezza. Si tratta di parroci in esercizio e ben conosciuti che intendono spronare i vescovi a trovare nuove soluzioni nell’ambito della Chiesa ufficiale. Questo non sarà possibile senza estendere il servizio presbiterale a nuovi soggetti.
Altre soluzioni possibili
Negli ultimi anni ho avuto modo di osservare diversi sviluppi nella Chiesa, che mi hanno portato a intravedere la direzione giusta. Nella facoltà di Teologia cattolica dell’Università di Vienna, ad oggi vi sono 1.200 studenti di teologia. All’epoca in cui io ero studente più di 50 anni fa, eravamo circa 200, di cui circa 180 furono ordinati presbiteri. Oggi, dei 1.200, al massimo 30 o 40 arriveranno all’ordinazione. Tutti gli anni, all’inizio del semestre, accoglievo i nuovi iscritti: incontravo i giovani e chiedevo loro perché avessero scelto teologia. Molti l’avevano fatto per diventare insegnanti di religione nelle scuole superiori, alcuni per coadiuvare i ministri nei servizi pastorali, molti, però, senza fini professionali, semplicemente perché erano interessati alla teologia. Solo pochi parlavano di sacerdozio.
Nell’autunno 2005 svolsi tra gli studenti un’inchiesta sul tema: “Perché così tanti studiano teologia e così pochi diventano preti?”. Tra il 17 gennaio e il 13 febbraio 2006, questa inchiesta venne condotta dal teologo pastorale Paul M. Zulehner. Durante un convegno sulla questione dei preti, tenutosi il 10 e 11 novembre 2006 presso l’Accademia Cattolica di Baviera, Zulehner, tra le altre cose, parlò di questa inchiesta. Nonostante questa non fosse esaustiva, furono comunque resi noti i risultati delle interviste agli studenti. Tra gli intervistati, solamente il 9% si era dichiarato effettivamente interessato al presbiterato definendosi “candidato al sacerdozio”. Il 29% si sentiva chiamato al presbiterato, ma forniva al contempo alcune ragioni per le quali avrebbe rinunciato all’ordinazione. In sintesi, si evidenziavano due ragioni fondamentali: l’attuale situazione della Chiesa e il celibato. Gli intervistati valutavano con preoccupazione lo sviluppo della Chiesa e parlavano di alcuni precetti morali difficili da vivere che, in nome della Chiesa, loro, in quanto preti, avrebbero dovuto rappresentare. Riguardo al celibato, non si trattava solamente di una scelta di vita personale: gli studenti mettevano in evidenza piuttosto una minore accettazione culturale del celibato, addirittura un deciso rifiuto all’interno della comunità ecclesiale. E questo rende la scelta del celibato ancora più gravosa.
Un’altra ragione per rinunciare all’ordinazione, secondo altri intervistati, era che non si sentivano maturi per svolgere il ministero presbiterale, preferendo le attività da teologi laici (…). Altri si preoccupavano del fatto che, considerando il loro scarso numero, i preti sono oggi sempre meno pastori d’anime. E un altro motivo addotto per la rinuncia all’ordinazione era la non accettazione della scelta da parte di familiari e amici.
Nell’elevato numero degli studenti di teologia, però, io vedo un potenziale utile alla Chiesa e alla sua pastorale, relativamente a nuovi soggetti a servizio della Chiesa sulla base della molteplicità di carismi presenti nella Chiesa primitiva. Secondo me, l’alto numero di studenti di teologia è senza dubbio un segno dei tempi. Cosa ci vuole dire Dio attraverso questo fenomeno? A cosa ha chiamato tutti questi giovani?
Un altro punto mi ha fatto riflettere seriamente. Molti optano per il diaconato permanente, solo pochi per il ministero presbiterale. (…) Crediamo forse che la chiamata al diaconato sia sostanzialmente diversa da quella al presbiterato?
Alcuni dei diaconi permanenti si sentivano pronti alla chiamata presbiterale ed erano stati in seminario per molto tempo. Poi hanno fatto un’altra scelta di vita, orientandosi verso altre opportunità lavorative.
Forse l’unico ostacolo all’ordinazione presbiterale dei diaconi permanenti è che sono sposati? Sembra proprio di sì.
(…) Le comunità accettano sempre più volentieri uomini sposati. L’ho sperimentato in più occasioni. Il parroco della parrocchia centrale greco-ortodossa di Vienna è, contemporaneamente, parroco in una “parrocchia di rito latino” nella bassa Austria. È sposato, come prevede il Diritto canonico di rito orientale, di millenaria tradizione. Sono stato più volte in questa parrocchia di campagna ed ho sperimentato come la comunità lo abbia accettato tranquillamente (insieme a sua moglie). Il pastore cattolico di rito rumeno-uniate di Vienna è, allo stesso tempo, parroco di rito latino. Anche lui è sposato e viene considerato un valido aiuto nella parrocchia di Vienna in cui opera.
Nella facoltà teologica dell’Università di Vienna c’è un docente esperto di riti del cattolicesimo orientale. Per questo motivo, sempre più preti della Chiesa uniate vengono qui per proseguire gli studi. Sono di grande aiuto nelle nostre parrocchie. Recentemente ha suscitato grande scalpore la notizia che, in un parrocchia viennese, un giovane cappellano austriaco aveva dovuto sospendere il suo ministero perché voleva sposarsi. La domenica successiva, al suo posto, era arrivato uno studente sposato della chiesa rumena-uniate per celebrare la Messa. La gente non ha compreso perché un uomo sposato dovesse sostituire il cappellano, il quale, proprio per la sua volontà di sposarsi, era stato costretto a sospendere il suo ministero. Non è stato facile spiegare che l’ammissione al presbiterato di uomini sposati è possibile secondo il Diritto canonico della Chiesa uniate, ma non secondo il Diritto Canonico di Rito Latino, dal momento in cui le leggi canoniche degli uni e degli altri sono promulgate dallo stesso soggetto legislatore, ovvero il papa di Roma. Del resto, già al tempo di Pio XII, alcuni pastori che passavano dalla Chiesa Riformata alla Chiesa Cattolica, continuavano a vivere nel matrimonio dopo la loro ordinazione con Rito Latino.
Poco tempo dopo si verificò un altro caso analogo nell’arcidiocesi di Vienna, con un pastore evangelico, che, ordinato presbitero cattolico, svolgeva il suo ministero in una parrocchia viennese: il suo matrimonio rimase valido a tutti gli effetti. Il 25 giugno del 1992, scrissi una nota sul settimanale Die Furche (…) dal titolo “Le comunità cercano preti”. Scrivevo in quell’articolo: “Se l’Eucarestia contiene in tutta la sua pienezza l’azione salvifica della Chiesa, ed è sorgente e vertice dell’evangelizzazione e dell’intera vita cristiana, ed esprime la vera essenza della Chiesa, come dice letteralmente il Concilio, non si può privarne l’intera comunità”. E mi chiedevo se, per questi gravi motivi, non fosse opportuno modificare i presupposti per il ministero presbiterale.
I media ricondussero questa mia affermazione ad un mero dibattito sul celibato. Poco tempo dopo, l’allora nunzio apostolico del papa, Donato Squicciarini, mi invitò ad un incontro sul tema. Ero andato spesso da lui e c’era un clima rilassato. Difese il celibato senza toccare l’argomento della indisponibilità dell’Eucarestia. Prima di venire a Vienna era stato per 10 anni nunzio apostolico in Camerun. Gli chiesi quindi come, in quei vasti territori, considerando l’ancora più evidente mancanza di preti sul territorio, venisse gestita la distribuzione dell’Eucaristia.
Secondo lui era tutto a posto. “Avevamo 100.000 catechisti che, in caso di necessità, la domenica celebravano il Servizio della Parola, e, ove possibile, distribuivano la Comunione precedentemente consacrata”.
Mi chiesi, sorpreso, di che tipo di tradizione ecclesiale si trattasse dal momento che il giorno del Signore prevede la celebrazione dell’Eucaristia. Di nuovo mi tornò alla mente: perché di questi 100.000 catechisti almeno alcuni non possono essere ordinati preti? Manca loro la preparazione necessaria, o il motivo fondamentale è sempre che in maggioranza sono sposati?
Preti del popolo in comunità vive
Ho di fronte a me un libro di Paul M. Zulehner, del vescovo sud-africano Fritz Lobbinger e del teologo dogmatico Peter Neuner, che propone una soluzione. Il libro si intitola “Preti del popolo in comunità vive”. Si tratta di un’arringa a favore dell’idea del prete di comunità. Potrebbe essere la nuova strada per vivere il ministero presbiterale. Gli autori prevedono nel futuro due modi di esercitare il ministero. Da un lato, un ministero tradizionale per i “preti diocesani”: coloro che hanno sentito la chiamata al ministero presbiterale, sono stati accettati e ordinati dalla diocesi, svolgono il loro compito impegnandosi per tutta la vita, con l’obbligo al celibato, mettendosi a disposizione delle necessità pastorali della propria diocesi. Dall’altro, gli autori propongono una nuova forma di ministero presbiterale detta dei “preti del popolo” o “preti della comunità”. Si tratta di persone appartenenti alla comunità (viri probati), scelti ed eletti dalla comunità stessa. La loro proposta è la seguente: “Vengono ordinati dal vescovo e destinati al presbiterato comunitario. Presiedono la Celebrazione Eucaristica e coordinano dall’interno tutta la comunità mantenendola il più possibile sulla linea della sequela del Vangelo”. I preti del popolo conservano la loro professione e svolgono il servizio presbiterale allo stesso modo dei diaconi permanenti. Gli autori sono consapevoli che una tale soluzione non possa essere perseguita solo da pochi vescovi o da singole Conferenze Episcopali. Diversi vescovi sono stati pregati di portare a Roma questa proposta.
Leggendo il libro, mi sono venuti in mente i casi concreti sperimentati durante una visita in un Decanato di campagna nella bassa-Austria. In quella zona quasi tutti i preti si occupano di due o tre parrocchie. In una delle parrocchie “senza prete” vive da anni un docente di religione insieme alla sua famiglia nella canonica altrimenti vuota. Ha studiato teologia e guida già da tempo un centro giovanile. Adesso è docente di religione in una scuola superiore di una cittadina limitrofa. Dà grande impulso spirituale alla vita comunitaria della sua parrocchia. È incaricato della cura del Servizio della Parola e della distribuzione della Comunione. Insieme alla comunità organizza in maniera creativa le feste religiose, in particolare durante il periodo di Avvento e di Quaresima. Mi sembra il modello perfetto di “prete di comunità”. Potrebbe continuare a svolgere il lavoro come docente di religione e svolgere il Servizio Eucaristico la domenica e i giorni di festa. (…)
I sacramenti sono per la gente
La responsabilità di accrescere il numero di preti è molto seria, in quanto, a causa della sempre più grave mancanza di preti, la celebrazione dei sacramenti diventerà sempre più rara.
Giovanni Paolo II nella sua Enciclica Ecclesia de Eucaristia ha spiegato l’importanza di questo sacramento anche nel suo più specifico valore per la Chiesa tutta. Ha ricordato ai fedeli lo stretto obbligo di partecipare alla messa domenicale e ammonito i vescovi a tale riguardo. (…) Mi stupisco che questo dovere venga considerato così poco seriamente dalla Chiesa. Spero che molti vescovi a Roma reclamino e facciano presente di non essere più in grado di garantire a tutti la possibilità di partecipare alla Messa domenicale. Che io sappia, durante l’ultimo Sinodo dei vescovi, svoltosi a Roma nel 2005 sul tema dell’Eucaristia, anche i vescovi di Paesi in cui la mancanza di preti è più grave hanno fatto appello a nuove soluzioni in modo a malapena udibile. Ma sarebbe stata l’occasione per una giusta trattazione di un tema così rilevante.
Negli ultimi anni l’assistenza ai malati in Austria è sorprendentemente aumentata. Alcuni preti e assistenti pastorali costituiscono, insieme ad un numero rilevante di diaconi permanenti, un folto gruppo impegnato con i degenti e i malati. Il colloquio con i malati è di grande conforto, e la vicinanza della Chiesa, soprattutto in caso di malati terminali, reca un particolare sollievo. Ma la mancanza di preti si avverte particolarmente nel momento in cui non possono essere amministrati in numero sufficiente i sacramenti come la Riconciliazione e l’Unzione degli Infermi. Viene detto ai laici che potrebbero offrire ai malati il perdono dei peccati, ma ciò equivale al Sacramento della Riconciliazione? (…) Possiamo quindi privare i malati dei segni sacramentali?
Si pensa spesso che la discussione riguardante nuovi soggetti che possano accedere al presbiterato tratti esclusivamente l’abolizione del celibato. Questo oggi è ancora un argomento “tabù”. In realtà si tratta dei sacramenti a cui hanno diritto tutti i fedeli. La Chiesa deve valutare quello che le consentono i suoi mezzi e la sua tradizione. Ad oggi non si riescono a prevedere soluzioni pragmatiche per risolvere il problema della mancanza di preti e per soddisfare le esigenze primarie delle comunità in tempi brevi. La Chiesa universale, o quelle a livello continentale, dovrebbero cercare nuove strade. La sola preghiera per le vocazioni, per quanto importante, non è abbastanza. Dovremmo invece pregare affinché si riesca a capire e ad imparare come Dio, forse oggi diversamente dal passato, chiami gli uomini a svolgere un servizio spirituale. Io credo che ci stia già dando dei segni in molti modi. Deve forse tale necessità aggravarsi ancora perché noi finalmente ce ne occupiamo?
Cap. 4 - Realtà di vita ormai superate?
Ho sentito rivolgere molte critiche alla Chiesa. A volte le trovo giuste e le condivido. Spesso invece sono ingiuste e frutto di pregiudizi, incomprensioni e generalizzazioni. Sono molto turbato quando la gente si scontra con le regole della Chiesa, poiché sente che esse interferiscono con le sue situazioni di vita. Questo può essere spesso vero per quanto riguarda la questione morale coniugale (…).
Come può la Chiesa riacquistare credibilità su questo terreno? A quasi 40 dalla Enciclica Humanae Vitae questo problema avrebbe già dovuto essere risolto in ambito ecclesiale. La teologia morale nel frattempo ha presentato a livello mondiale nuove argomentazioni ai fini di un giudizio differenziato. I teologi morali, così numerosi, avrebbero dovuto essere ascoltati e non affrettatamente censurati. Le nuove frontiere della scienza umana (la cui enorme importanza era stata riconosciuta già in sede di Concilio) ci permettono oggi di vedere ancora più chiaramente cosa significhi realmente, rispetto alla contraccezione, il termine “naturale” nel rapporto sessuale tra i coniugi. La Chiesa avrebbe dovuto ascoltare con il massimo rispetto la voce degli stessi fedeli, le loro esperienze di amore coniugale nella vita reale. Avrebbe dovuto prima di tutto rifarsi al principio di “maternità e paternità responsabile”, ovvero lasciare che i genitori si assumessero liberamente questa responsabilità, dopo un attento e coscienzioso esame della propria situazione, delle proprie motivazioni, se necessario con l’ausilio di un medico, davanti a Dio, quindi anche sfruttando momenti di preghiera comune (…).
Cosa è lecito ai divorziati risposati?
Nell’ultimo decennio il numero dei divorzi è aumentato esponenzialmente. La maggioranza dei divorziati trova in seguito un nuovo partner. Questa seconda unione non è accettata dalla Chiesa, a meno che non ci sia stato un previo annullamento del precedente matrimonio. Per questo motivo, per i cattolici praticanti sorgono grandi difficoltà. Poiché essi vivono in uno stato di vita considerato peccaminoso dalla Chiesa, non possono avvicinarsi ai sacramenti. Non potrebbero fare da padrini/madrine di battesimo o di cresima, e neanche far parte del consiglio pastorale parrocchiale. Il loro rapporto con l’istituzione ecclesiastica è messo a rischio dalle regole. Il problema mina profondamente l’intera vita del credente, in campo religioso, familiare e perfino lavorativo. Il rapporto con i divorziati risposati è diventato uno dei problemi pastorali più tragici dell’ultimo decennio.
Nel 1978 ero da un anno arcivescovo di Vienna e mi fu chiesto dal Consiglio Diocesano di riferire a che punto si trovasse la discussione sulla pastorale per i divorziati risposati. Le mie considerazioni furono in seguito pubblicate e, successivamente, raccolte in un libro che, per la sua copertina, venne chiamato “Il libretto rosso”. Circolò insistentemente la voce che questo libretto fosse il motivo della mia mancata successione, nel 1985, all’allora card. König, come molti invece auspicavano. Questo sicuramente non corrispondeva a verità.
Mentre preparavo il libretto, stavo scrivendo un libro dal titolo “Matrimonio e separazione: discussione fra cristiani”. Erano i documenti di un congresso all’Accademia Cattolica di Baviera tenutosi nel 1971. Tra i vari relatori c’erano anche i teologi dogmatici Joseph Ratzinger e Karl Lehmann. Nella mia relazione mi ero riferito spesso alle dichiarazioni di entrambi. Mi furono straordinariamente utili i criteri che Ratzinger aveva formulato con tutta la dovuta prudenza riguardo ai casi in cui alle persone in questione potesse essere concesso l’accesso alla comunione sulla base delle testimonianze del parroco e dei membri della comunità. Non si tratterebbe di una soluzione giuridica, ma di una scelta di coscienza.
Oltre a tali considerazioni, va dato anche un ampio sguardo alla prassi della Chiesa ortodossa. Questa era anche l’opinione dei teologi, cautamente formulata, ma fondata in coscienza.
Anche Walter Kasper già tentava di fare appello ad un consenso sulle dichiarazioni ufficiali di Ratzinger e Lehmann. Mancava comunque ancora una ratifica unanime del corpo ecclesiale. Il Sinodo dei vescovi che si è tenuto a Roma nel 1980 su Matrimonio e Famiglia poteva essere la circostanza adatta allo scopo. E a questo si aspirava. Joseph Ratzinger, divenuto intanto arcivescovo di Monaco-Freising, al rientro dal Sinodo, l’8 dicembre 1980, scrisse una lettera ai preti, ai diaconi e agli operatori pastorali. Nel testo egli faceva riferimento al Sinodo: “Per la cura pastorale di questi nostri fedeli tormentati, è desiderio del Sinodo che venga avviata una nuova e più approfondita analisi – in base alle considerazioni della prassi ortodossa – con l’obiettivo di rendere la carità pastorale ancora più visibile” (…).
Nella Familiaris Consortio, Giovanni Paolo II ha affrontato, fra gli altri, anche il tema dei divorziati risposati, analizzando il problema in modo sorprendentemente realistico (…). Il ricorso al sacramento della penitenza, che riapre la strada all’Eucaristia, può essere valido per loro solo se “si impegnano a vivere una vita completamente casta, che significa astenersi dall’atto sessuale, riservato ai soli coniugi”.
In molte conferenze nell’ambito dell’educazione degli adulti ho tentato di spiegare il magistero della Chiesa. Riguardo alla limitazione relativa ad “una vita completamente casta”, sono stato colpito dalla reazione, di incomprensione o di protesta, di molti cattolici impegnati (…). Tuttavia le comunità ecclesiali si sono sempre richiamate a questa disposizione magisteriale e per questo hanno sempre di fatto impedito alla maggior parte dei separati la partecipazione ai sacramenti. Correnti di opinione diversa sono state sempre respinte da Roma.
Nel luglio 1993 i vescovi tedeschi Oskar Saier, Karl Lehmann e Walter Kasper suscitarono grande scalpore con la loro lettera pastorale. Essi distinguevano tra le disposizioni dottrinali in vigore e “l’evidente complessità di ogni singolo caso”. In alcuni casi “il dialogo può aiutare due separati a trovare un accordo per una decisione responsabile, che deve essere rispettata dalla Chiesa e dalla comunità”. Nelle loro argomentazioni giungevano a conclusioni simili a quelle dei teologi dell’Accademia di Baviera nel 1971. Alla fine del 1993 venne inviata ai tre vescovi austriaci una lettera dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nella quale si diceva che il loro documento non era pienamente conforme al magistero cattolico. Contemporaneamente la Congregazione per la Dottrina della Fede aveva inviato una lettera ai vescovi del mondo, nella quale la dottrina in vigore veniva ulteriormente irrigidita. I vescovi dell’Alto Reno però scrissero alle loro diocesi una seconda lettera, illustrando i propri contrasti con Roma. Lungi dal ritrattare, essi chiarivano che nel loro documento alcune espressioni della Chiesa universale non potevano essere accettate e pertanto non potevano diventare norme vincolanti e della prassi pastorale. Ma promettevano, per il futuro, che si sarebbero sforzati di trovare una soluzione consensuale dal punto di vista teologico e pastorale.
Questa discussione ha ulteriormente evidenziato come sia pressante la necessità di riproporre tali questioni pastorali, e come questa porzione di Chiesa (le tre diocesi di Freiburg, Mainz e Rottenburg) fosse intenzionata ad assumersi seriamente questa responsabilità nei confronti della Chiesa universale. Nel frattempo due dei tre vescovi diventarono cardinali, Walter Kasper e Karl Lehmann. Un segnale rassicurante, che mostrò come, sebbene “la dottrina del tempo non sostenesse le loro tesi”, il loro avanzamento di carriera non fosse stato arrestato. Resta quindi la speranza che entrambi non dimentichino di trasmettere ai propri preti diocesani la consapevolezza della possibilità di una “soluzione consensuale”.
Quali altre soluzioni dovremo aspettarci per il futuro?
Nel campo della legislazione ufficiale, resta l’esempio della Chiesa Orientale. Anch’essa sostiene l’indissolubilità del matrimonio, ma in determinate circostanze, “per motivi pastorali e in considerazione dell’umana debolezza”, un secondo matrimonio è possibile. Questo secondo (o a volte terzo) matrimonio prevede una penitenza. Nel 1971 Joseph Ratzinger aveva accennato all’esempio della Chiesa orientale nel suo discorso di ringraziamento all’Accademia Cattolica di Bayern. Il Sinodo dei Vescovi di Roma del 1980 volle approfondire gli studi sul tema per la Chiesa di rito latino. Oggi l’ecumene sembra essere sulla linea della Chiesa Orientale. (…) Questa prassi della Chiesa Orientale era conosciuta anche al tempo del Concilio di Trento. E stranamente non subì alcuna condanna.
Un’altra possibile soluzione è agire secondo coscienza. Nell’assemblea austriaca “Dialogo per l’Austria” che si è tenuta dal 23 al 26 ottobre 1998 a Salisburgo, furono formulate alcune proposte, accolte poi con 233 voti su 269: “Le persone che, in base a una decisione di coscienza responsabile, e dopo attento esame - magari dopo un colloquio con un prete – volessero accostarsi alla comunione, meritano pieno rispetto. Per poter fornire adeguata guida e consiglio, i ministri incaricati devono essere adeguatamente preparati”. Al contempo i vescovi austriaci furono pregati di sostenere e tenere in considerazione il voto espresso nel Sinodo del 1980 sulla prassi della Chiesa Orientale. Nell’elaborazione della proposta del “Dialogo per l’Austria”, la Conferenza Episcopale Austriaca si era impegnata perché tale proposta venisse accettata a Roma, ma poi aveva riportato semplicemente le prescrizioni magisteriali romane. Nello stesso anno, invece, nella Diocesi di Bolzano e Bressanone fu pubblicata una dispensa a supporto dei preti che dovevano predicare alle coppie divorziate e risposate, redatta da un gruppo di esperti e dai vescovi della diocesi, dove si auspicava “che la decisione ultima in merito alla partecipazione all’Eucarestia venisse presa sempre secondo coscienza personale, previa conoscenza degli aspetti generali del problema, in maniera scrupolosa e informata”. Dove è chiaramente comprensibile la distanza tra le norme oggettive e la coscienza soggettiva.
(…) Purtroppo non si può trarre alcuna soluzione a livello di Chiesa universale da questa esperienza diocesana, ma questa presenta il problema in tutta la sua ampiezza e rivela il coraggio di sollecitare e persino di rendere concreta, attraverso tentativi condotti dalla Chiesa locale, una soluzione a livello di Chiesa universale.
In alcune parrocchie non si tratta solo di gestire l’acces-so ai sacramenti, ma ci si interroga anche in che modo il secondo matrimonio, convalido dal punto di vista canonico, possa ricevere la benedizione.
Nel 2006, l’allora ministro delle Finanze austriaco, dopo essersi sposato con rito civile in un vigneto della Bassa Austria (il matrimonio religioso non era possibile), chiese ed ottenne una benedizione dal parroco, previa informazione al vescovo competente.
Nelle comunità parrocchiali incontro spesso membri impegnati che sono divorziati e risposati. Una donna mi ha detto che intendeva impegnarsi nella preparazione al matrimonio in parrocchia, poiché, dopo la fine del suo primo matrimonio, e grazie alla nuova consapevolezza generata da una seconda relazione, era in grado di valutare meglio di altri le gioie e le sofferenze di un matrimonio. In alcune parrocchie non si fa più neanche lo sforzo di chiedere lo stato di famiglia ai padrini/madrine di battesimo (…).
Speriamo che la Chiesa smetta di precludersi minacciosamente queste realtà di vita. “L’uomo è la via della Chiesa”: questa frase di Giovanni Paolo II viene spesso citata, a ragione. Essa vincola tutti noi ad aiutare gli uomini a realizzarsi, in una Chiesa che sappia comprendere e curare, e lasciar vivere.
21 febbraio 2008
LA LUCE NON SI GUARDA
Abbiamo avuto un corso di esercizi spirituali in Diocesi. Tre giorni stupendi, con eccellenti meditazioni e molta pace. Domani completerò sei mesi dal mio arrivo qui, ed è già la seconda volta che la Diocesi fa gli esercizi. Il Vescovo Eugenio Rixen ci tiene molto alla spiritualità di chi lavora con lui...
Non ho avuto tempo di pensare al blog. Vi pubblico questa foto di un arcobaleno che lambisce l'estrema periferia di Itaberaì: simbolo di pace e armonia, che è ciò che abbiamo vissuto in questi giorni speciali.
Guidati da un bravo prete irlandese, abbiamo meditato sulla prima lettera di San Paolo ai Corinti. La Bibbia è una fonte di meditazioni. Libro stupendo che racconta il cammino di una parte dell'umanità alla scoperta dell'amore che Dio nutre per ogni uomo e donna. Come tutto ciò che è umano, anche la Bibbia è una storia di dense tenebre, interrotte quà e là da sprazzi di luce. In quegli squarci c'è la Parola di Dio. E' anche un libro pericoloso. Se lo leggi stupidamente pensando di trovarvi tutte le risposte, diventi un fanatico o un incredulo. Se lo leggi con la mentalità razionalista o positivista, sarai tentato di fare dell'umorismo di basso livello. Oggi sappiamo che il mondo e l'umanità esistono da milioni di anni, mentre la Bibbia abbraccia un tempo e uno spazio assai limitato - ma narra di un rapporto tra Dio e un popolo, che riguarda tutti gli altri popoli e noi. Se cerchi quegli sprazzi di luce che illuminano il buio della tua vita, trovi un Dio che dà un senso al tuo vivere. Se guardi la luce ti acceca. Se ti guardi intorno, la luce illumina il sentiero.
Alcuni giorni fa ho regalato la Bibbia a una donna che me l'aveva chiesta. Era la Divina, una signora che si è presentata così: "Accompagnata (senza matrimonio regolare), sessant'anni, ho tirato su alcuni figli che ora sono grandi, ho sempre pregato, vivo in un accampamento di senza-terra, ho sognato di imparare a leggere e ora ho realizzato il sogno. Ora vorrei una Bibbia e ho fede in Dio che riuscirò ad averla". Quando gliel'ho consegnata, l'ha rigirata a lungo con le mani tremanti e osservando ogni dettagli del dorso e della copertina, poi ha detto: "Padre, credo che questa notte non dormirò!" Ed io, dopo aver parlato con lei, sono certo che Divina ha vissuto la sua vita difficile sotto la luce di quel libro, anche prima di leggerlo. Perchè Dio parla anche in altri modi.
15 febbraio 2008
LA VITA OLTRE MURI E RECINTI
Nella foto: Zè Rumao e Benedita sulla porta della loro tenda, in un accampamento di sem-terra nei pressi di San Benedito. (Se volete vederli bene in faccia dovete cliccare sulla foto). Questi accampamenti sono ancora il simbolo di una tenace lotta per la vita. Ora sembrano in via di esaurimento. Molte famiglie hanno ottenuto la terra, altrettante hanno trovato il posto di lavoro in attività diverse e abitano in qualche periferia. Nel frattempo la globalizzazione ha messo KO l'agricoltura tradizionale, traformandola in una estrazione di materie prime per l'industria e rendendola poco attraente per i giovani abbagliati dal fascino del consumismo. Ma c'è ancora gente per cui avere un pezzo di terra è un sogno, se non altro per avere un'alternativa alla vita che viene imposta alla mano d'opera nel mercato globale: vita che spesso non è degna nemmeno per i cani. In questo accampamento, che è ai margini della statale Itaberaì-Itapuranga, gli occupanti hanno in vista una fazenda che il governo sta espropriando nel comune di Itapuranga, poco lontano dal Rio Urù. Attualmente sono appena una decina di famiglie, ma ne stanno arrivando altre, perchè quella fazenda è grande e fa rinascere la speranza di un pezzo di terra anche in alcuni di coloro che si erano stancati di vivere nelle baracche.
Nel post precedente si parlava di chi "non ha mai fatto l'esperienza di quanto Dio lo ama". Non è il caso di Zè e Benedita: loro l'hanno fatta, questa esperienza, e Dio lo sentono ben presente nella loro vita. Anche se sono due vedovi che si sono messi insieme senza rituali, sono sereni. Affrontano da anni la vita precaria da accampati in attesa che il governo trovi per loro una terra su cui lavorare e vivere con la famiglia. Pazientemente, continuano a coltivare le loro verdure ed erbe medicinali nei secchi e bacinelle forati. A quanto pare tra i "poveri di Dio" e le istituzioni, per quanto sacre, c'è una distanza difficile da colmare. Si ignorano a vicenda. Zè Romao mi racconta, tuttavia, che è stato animatore di comunità nella sua parrocchia di origine, è amico di diversi preti e li ha aiutati nei corsi di preparazione al matrimonio e negli incontri. E' stato uno tra i fondatori del sindacato dei lavoratori rurali del suo paese. Non è uno sprovveduto! Mi rivela anche che ogni giovedì, nel piccolo accampamento, si riuniscono in preghiera. Naturalmente tra di loro c'è anche chi non vuole pregare, e Zè è convinto che Dio ami anche quelli, tanto uguale. Sono poveri che cercano mezzi per vivere! Zè Romao mi ha fatto impressione. I sem-terra accampati, per molti, sono come erano i samaritani per i giudei, ai tempo di Gesù: gente da evitare. Infatti nella comunità cattolica della cappella prossima all'accampamento, quando ho chiesto se visitavano di tanto in tanto gli accampati, mi hanno detto: "Non ci andiamo perchè sono tutti evangelici pentecostali"! Che non è vero, ma rende evidente, per chi non lo sapesse già, che ci sono muri ovunque: tra nazioni, ma anche tra un cortile e l'altro e, soprattutto, dentro ai cervelli e ai cuori.
Di fronte a un muro esistono solo tre scelte possibili: o stare da una parte, o dall'altra, o sedersi sul muro e stare a guardare. Non manca chi ritiene che stando seduti lì sopra possiamo essere da ambe le parti. Se fosse vero sarebbe una bella pensata, no? Gesù Cristo si trovava molto più in alto di tutti i nostri muri e fili spinati, ma per salvarci è sceso tra noi e si è messo dalla parte degli esclusi. Dì più: ha distrutto l'isolamento dei lebbrosi, dei ciechi, degli storpi, dei samaritani, galilei, pubblicani, peccatrici, indemoniati e via dicendo, vittime di pregiudizi ed esclusioni. E ha detto: "Il Padre mi ha inviato affinchè tutti abbiano la vita, e la vita in abbondanza". La storia di Zè Romao e della sua compagna, e la storia di Gesù, ci mostrano che per "scegliere la vita" bisogna saltare giù dal muro e scegliere da che parte stare.
Nel blog: http://www.bartimeo.nafoto.net
potete vedere altre immagini dell'accampamento.
11 febbraio 2008
DALLA PARTE DELLA VITA, CONCRETAMENTE
Abbiamo iniziato la quaresima con celebrazioni eucaristiche e il rito delle ceneri, in città e nelle comunità rurali (CLICCA SULLA FOTO). Nella difesa della vita, tema della Campagna della Fraternità in Brasile, la lettura biblica e il rito simbolico sono importanti per motivare e dare una spinta: "non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio". La pratica, però, è molto più importante. Nella pratica le parole e i riti si misurano con le sfide della realtà concreta. E' questa che ci costringe ad avvicinare le persone e la loro situazione. Solo così si può davvero difendere e promuovere la vita. La pratica è più imperfetta dei principi astratti e più banale del rito, ma trasforma la realtà. Vedi il testo di Isaia, 1, 10-15: che se ne fa, il Signore, dei nostri principi sulla sacralità della vita e dei nostri culti spettacolari ("che bello, hai visto quanta gente c'era?") se non spezziamo il giogo degli oppressi e non li aiutiamo a fare l'esperienza di quanto Dio ama ciascun essere umano? Per moltissima gente i nostri enunciati sulla bellezza della vita - dono di Dio - sono una presa in giro.
Un giovanotto di trent'anni (chiamiamolo Anselmo, tanto per dargli un nome), mi dice piangendo e balbettando: "Padre, io voglio vivere ma non ci riesco più. Mi vanno tutte male: il lavoro, il matrimonio, la mia salute. Sono fallito in tutto. Leggo la Bibbia, e invece di trovarvi conforto e coraggio, mi pare che mi condanni". Per giunta, si è messo a bere ed è diventato alcoolatra. Così sta distruggendo anche la vita di sua madre, presso la quale si è rifugiato. In effetti sfoglio la Bibbia che sta leggendo, e vedo che ha sottolineato tutte le frasi che bollano come peccatore e rifiutato da Dio chi è ammalato e in miseria. Lui ha visto solo quelle. In questi casi avere una "Chàcara Paraìso" che lo può accogliere e sostenere con una vita in comunità e con l'accompagnamento di persone che gli facciano scoprire l'amore del Padre che lui non ha ancora conosciuto (come abbiamo noi in diocesi), è davvero un dono favoloso. "Per me era notte ed è tornato giorno" - mi ha proclamato sua madre: usando, senza saperlo, le parole della Liturgia della Veglia Pasquale.
Il Brasile è ricco di donne fantastiche. Le maestre dell'asilo San Francesco conoscono e riconoscono l'amore di Dio, ma avevano bisogno di un posto di lavoro per esprimere coi fatti la loro riconoscenza. Lo hanno trovato passando al concorso del Comune (quest'anno pare che non siano state tenute in considerazione le raccomandazioni). Domattina cominciano a lavorare. Stamane hanno fatto una riunione con la direttrice, presentandosi e riflettendo su un brano di Paolo ai Corinzi. Con tutto il sentimentalismo di cui sono capaci e che non manca di fascino(ormai pare che il sentimentalismo esista solo in Brasile), hanno ringraziato Dio bagnando le parole di calde e copiose lacrime, per aver dato loro la vocazione e l'opportunità concreta di dedicare la vita ai bambini di un quartiere carente. Ecco il canovaccio dei loro "detti": "Ringrazio il Signore, e sono certa che amerò questi bambini e avrò cura di loro come se fossero figli miei. Prego tutte voi, colleghe, di aiutarmi ad acquistare esperienza e a dare il meglio di me stessa". Una di loro, addirittura, ha dichiarato: "Sono sposata, ho due figli piccoli e non ho mai fatto l'esperienza di lavorare con bambini: ma li amo e sono sicura che li aiuterò a crescere bene". Per un quartiere così pieno di problemi familiari e occupazionali, poter affidare i figli ad una squadra di maestre così motivate è sicuramente una manna dal cielo.
Dobbiamo costruire due sale nuove per l'asilo San Francesco. L'edificio è tutto a pian terreno, fare un'aggiunta non è difficile. Non abbiamo ancora i calcoli precisi, ma a occhio e croce prevediamo 25 mila reali di spesa: circa 10 mila euro. Se qualcuno avesse la buona ispirazione di darci una mano, mandi una e-mail al mio indirizzo o mettetevi d'accordo tra di voi. Poi combineremo come fare arrivare l'offerta a Itaberai. So bene che di bisogni più gravi e urgenti ce ne sono tantissimi: anche in Italia (osserva il video in calce alla pagina). Per questo io chiedo senza insistenza e col timore di essere egoista. Ma quest'anno tra i bisognosi di un sostegno ci sono anche i piccoli di questa comunità, ed io non sto chiedendo per me stesso. Chiudo col pensiero che segue, e che ho preso in prestito dal solito "postino".
Pensiero del giorno: "Che tipo di Quaresima ci apprestiamo a vivere, lo potremo sapere ogni giorno confrontandoci, per esempio, seriamente con le letture che la liturgia ci propone. Che comunque essa non si possa risolvere in un cammino e in un atteggiamento intimista e solo spirituale ce lo mette quasi brutalmente davanti la profezia di Isaia che ci è dato di ascoltare oggi. Che, per chi ha il callo alla pratica religiosa, potrebbe scivolare via senza scalfirci neppure un po’: “Se toglierai di mezzo a te l'oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se offrirai il pane all’affamato, se sazierai chi è digiuno, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua oscurità sarà come il meriggio” (Is 58, 9-10). È questo che interessa al Signore, anche e soprattutto in un mondo globalizzato come il nostro, dove il problema dell’oppressione e della fame domina come mai prima d’ora. Di quali strumenti concreti ci doteremo, quali scelte compiremo per rispondere a questo appello di Dio? “Dopo ciò, Gesù uscì e vide un pubblicano di nome Levi seduto al banco delle imposte, e gli disse: Seguimi! Egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì” (Lc 5, 27-28). Tutti ci s’ha o ci s’ha avuto il nostro banchetto, che ci ha dato di che vivere, sicurezze e motivazioni (economiche, ideologiche, politiche, persino religiose) di basso o di dubbio profilo (senza che, necessariamente, lo sospettassimo), con cui tirare avanti. Ora Lui è qui (o forse è stato qui qualche tempo fa) e ci chiede (o ci ha chiesto) di mollare tutto, per fidarci solo della sua parola. Sapendo che la sua parola non è la musica di una sirena o di un pifferaio qualunque (meno che meno, dato che lì da voi si è già in campagna elettorale, quella del pifferaio di Arcore e dei suoi astuti compari), ma è qualcosa che cambia in primo luogo la nostra vita e solo in seconda battuta motiva e determina le nostre scelte. Diversamente ci sarebbe da diffidare. L’incontro con Gesù, se e quando avviene, impedisce che restiamo incollati ai nostri scranni, ci fa cogliere nel suo sguardo la condizione in cui giace l’umanità e ci trascina nel progetto di liberazione del Padre. Come pregava Dietrich Bonhoeffer nella sua prigionia: “Signore Gesù Cristo, tu fosti povero e misero, prigioniero e abbandonato come me. Tu conosci tutta l’infelicità degli uomini; tu rimani accanto a me, quando nessun uomo mi rimane accanto, tu non mi dimentichi e mi cerchi, tu vuoi che io ti riconosca e mi volga a te. Signore, odo il tuo richiamo e lo seguo, aiutami”.
Nel fotoblog: www.bartimeo.nafoto.net
continua la pubblicazione di fotografie scattate a Manaus.
7 febbraio 2008
FRATERNIDADE E DEFESA DA VIDA
Ieri sera, primo giorno di quaresima, la chiesa parrocchiale di Itaberaì era piena zeppa per il rito delle ceneri, come potete vedere nella foto. Ha presieduto la celebrazione Padre Severino. Maurizio ed io eravamo ciascuno in una comunità rurale a celebrare la stessa liturgia. Così abbiamo dato inizio alla quaresima e alla Campagna della Fraternità, dal cui tema ho preso il titolo....
Credo di avervi già spiegato nei giorni scorso che cos'è la Campagna della Fraternità in Brasile. ma un invito a un forte impegno comune dei cattolici per far convergere la preghiera, il digiuno e le elemosine della quaresima su un obiettivo concreto. Quest'anno tale obiettivo è la difesa della vita: tutte le vite minacciate. La "fraternità" non si può limitare a difendere i nascituri e a combattere l'eutanasia. La difesa della vita richiede impegno per offrire a tutti condizioni di vita dignitose e prospettive per il loro futuro, e cure per l'ambiente (aria - acqua e terra) la cui devastazione minaccia interi popoli.
Ora basta con le ciarle e godetevi l'inno della Campagna 2008, che potete ascoltare e leggere in questo video. (Ammesso che vi piaccia). Il testo, forse, non è proprio una canzone: ma come schema di omelia può andare.
4 febbraio 2008
AMAZZONIA: IL GRIDO DELLA FORESTA.
In primo piano un bradipo. Mentre risaliamo un affluente del Rio delle Amazzoni, donne e bambini che abitano su case galleggianti ai bordi della foresta ci inseguono con le loro barchette e accostano la nostra barcona da dieci posti ancora in movimento. Vogliono offrire ai turisti una foto ravvicinata di questo animale in cambio di una mancia. (La gente si inventa i mestieri.) Si aggrappano. La bestiola, contrariando il suo istinto naturale di restare immobile come un fagotto, si aggrappa anche lei: nel nostro mondo agitato nemmeno i bradipi riescono a stare fermi. Lo possiamo scegliere come simbolo dei popoli della foresta che alzano le braccia gridando: chiedono aiuto.
Cosa siamo andati a fare in Amazzonia? C'era una riunione di missionari italiani. Preti (sono ancora la maggioranza, ma stanno diminuendo in fretta e stanno aumentando molto, invece, i laici), laici e laiche, religiosi e religiose, tutti affiliati al CUM, il Centro Missionario sostenuto dalla CEI. Circa 125, da tutto il Brasile, con alcuni rappresentanti di Uruguai, Paraguai, Perù, Bolivia, Venezuela ed Equador, e tre inviati dall'Italia. Le voci più ascoltate sono state quella di Padre Claudio Perani, gesuita, e Soave Buscemi, laica biblista. Il tema dell'incontro è la difesa ambientale, e per questo è stato scelto come luogo Manaus, capitale dell'Amazzonia. Abbiamo cominciato da una frase del profeta Isaia: "La vita del mio popolo sarà lunga come quella degli alberi" (Is. 65, 22): essa evoca il legame tra la vita della foresta e quella dei popoli che la abitano. Abbiamo cercato di ascoltare il grido dei popoli della foresta, ma non solo. L'incontro è iniziato con una relazione di tutte le regioni del paese. Ovunque, gli scenari si assomigliano: la foresta che brucia, il cerrado sostituito da grandi monoculture a servizio del mercato globale, le campagne abbandonate, i periodo di siccità che si allungano e si fanno più violenti, i fiumi che si assottigliano (la TV ha mostrato in questi giorno il grande Rio San Francisco attraversato da giovani motociclisti in sella), le città che si gonfiano. Di conseguenza, la violenza urbana fuori controllo, l'emigrazione, il disfacimento delle famiglie, la corruzione che invade tutte le istituzioni e corrompe la democrazia riducendo l'informazione e la politica ad uno squallido intrattenimento, mentre comandano il mondo (e arricchiscono di fatto) la borsa e le banche. Che non danno a nessuno la soddisfazione di vivere bene e con dignità: nè i poveri nè i ricchi.
Vi trasmetterò ora alcuni pensieri che non sono un documento della riunione, ma le mie riflessioni e impressioni su quanto è stato presentato e detto. Primo: il grido della foresta amazzonica e del suo popolo è reale, e nello stesso tempo assume un potente significato simbolico: perchè essa è il polmone del mondo, ed è gravemente affetta da un cancro già diffuso in tutto il pianeta e che ha raggiunto l'Amazzonia per metastasi. "La vita del mio popolo sarà lunga come quella degli alberi": è una promessa e una minaccia. Quando sarà bruciato l'ultimo albero, la razza umana sarà già estinta. Vogliamo chiamarlo per nome, questo cancro? Non si chiama capitalismo? Ci fa paura dirlo, perchè viviamo di esso e il benessere di cui noi, pochi, godiamo ancora, è in gran parte un suo prodotto. Ma sta uccidendo la terra e ucciderà anche noi.
Secondo: ci sono speranze? Soluzioni concrete per salvare l'attuale modello di sviluppo, non ne sono uscite dal convegno. Non credo che ne usciranno nemmeno dai palazzi. Questi, forse, decideranno nuove strategie di "crescita economica", per arricchire più in fretta i finanzieri e le loro banche. Forse nuovi tipi di bombe, sempre più intelligenti, per uccidere "gli altri" senza subirne danni. Anche qualche nuova legge punitiva pseudo-cristiana per spaventare i drogati e le adolescenti prostituite e ingravidate: che si tengano per sè i loro problemi. Scrive Francesco Gesualdi, nel suo libro "Sobrietà" più volte citato nel nostro incontro: "Se volessimo offrire a tutti lo stile di vita americano ci occorrerebbero almeno 5 pianeti come questo". E ancora: "In Europa la velocità media attuale delle automobili è quella del tempo in cui si andava in carrozza".
La parte di Chiesa presente all'incontro vuole ascoltare, convertirsi e camminare con i poveri. Senza ritorni al passato. Crede che questa sia la soluzione. Afferma senza mezzi termini che siamo discepoli di Gesù Cristo, inviato dal Padre "afinchè tutti abbiano la vita, e la vita in abbondanza". Lui partì da Betlemme, e poi dalla Galilea: da umili pastori, pescatori, pubblicani, donne trascurate ed emarginate. Inventò il cammino delle beatitudini (beati i poveri in spirito, i poveri di Dio che non possiedono ricchezze e non le pretendono). Che siamo davanti a una scelta da fare: la vita o la morte, ci dicono i vescovi brasiliani rifacendosi alle parole della Bibbia. Noi vogliamo seguire l'invito "scegli, dunque, la vita", il motto biblico (Dt. 30, 19), che campeggia sul manifesto della Campagna della Fraternità 2008, proposto da loro.
Per questa porzione di Chiesa la strada della vita (senza miracoli economici o di altro genere) sono i poveri e il loro grido. Essi tentano di conservare le loro culture e modi di vivere, legati al loro ambiente naturale. I loro movimenti sociali e le loro piccole cooperative, società e attività economiche, la loro fede, il senso di comunità, le lotte per la difesa della foresta e del cerrado, la loro capacità di convivere tra culture e religioni diverse, sono atti di resistenza della vita e indicano cammini alternativi al capitalismo sfrenato e allo scontro tra culture e religioni. Una espressione chiave del nostro convegno è stata: "Camminare con il popolo" e non "per il popolo". E l'altra: "Seguire la via della sobrietà": consumare meno, aggredire meno l'ambiente, non puntare sulla crescita economica (secondo il modello capitalista) ma sulla vita modesta e relazioni sempre più umanizzate.
Io sono appena arrivato dall'Italia, e forse per questo ho seguito l'incontro con interesse ma senza osare pronunciarmi. Ciò che ho ascoltato mi ha, man mano, coinvolto. Il mio timore è che certe cose siano lontane dalla pratica. Che lo Spirito Santo ci aiuti ad essere fedeli a questa scelta assai impegnativa dei missionari italiani del CUM: che è più facile da dire che da fare.
PS - nel fotoblog www.bartimeo.nafoto.net pubblicherò, a puntate, alcune immagini dell'incontro e del passeggio sul Rio delle Amazzoni.
2 febbraio 2008
LASCIATECI GLI ZINGARI
Che cosa pensereste se qualcuno, al telefono, vi chiedesse: "Padre, una famiglia di zingari molto amici nostri si sono accampati in piazza: possiamo tenerli vicino a noi fino al 4 febbraio prossimo"? Dopo un lungo periodo passato in Italia, ricevere una telefonata del genere mi ha fatto un pò ridere! I buoni cittadini italiani li vogliono il più lontano possibile dalle loro case. Naturalmente non è perchè i brasiliani sono santi e gli italiani sono dei diavoli. La differenza sta nel contesto.
Sono appena tornato dall'incontro nazionale dei preti italiani a Manaus, in Amazzonia, ma non ho ancora pronto il materiale per informarvi a questo riguardo. Vi offro, invece, la fotografia di gruppo che ho scattato con gli zingari domenica scorsa prima della messa, nella borgata di Santa Rita: a una trentina di chilometri da Itaberaì. Si sono accampati nella piazza del paese, che è una vasta spianata erbosa recintata che circonda la chiesina del luogo. Lo spazio che hanno occupato è di proprietà della chiesa: ecco il motivo della telefonata. Gli zingari sono probabili discendenti di veri zingari europei (loro affermano di avere origini egiziane), che hanno conservato la tradizione del nomadismo. Per il resto sono brasilianizzati. Di cognome sono "Silva", uno dei più comuni in Brasile....Mantengono ottime relazioni con la gente e sono accolti come amici. Non so nulla del loro lavoro. Li conosco da molto tempo, ma non so quasi nulla del loro modo di vivere e di pensare. Ricordo solo di avere celebrato pure un battesimo tra loro. Mi hanno detto: "Anche don Eligio veniva sempre a parlare, era una dei nostri". Domenica i loro ragazzi (mezza dozzina) hanno partecipato alla messa dal principio alla fine. Il fatto più evidente è che tra la gente umile di un villaggio di campagna e gli zingari non ci sono difficoltà ad identificarsi e accettarsi come si è, e questo io lo considero un dono che Dio ha fatto ai poveri: la ricchezza di umanità. Ci ricorda il Gesù del Vangelo, che era respinto dalle persone che avevano una reputazione o posizione da difendere, mentre tra i piccoli era "dei nostri".
"La pietra scartata dai costruttori è diventata pietra angolare", ci insegnano le Scritture. Gesù ama sempre venire tra noi entrando per le porte secondarie.
PS: nel fotoblog, www.bartimeo.nafoto.net altre immagini degli zingari.
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